Tubo Catodico

Portfolio Categories: galleria.

Un progetto di Cine Da Vinci

l cubo catodico non è uno strumento come gli altri.
Il cubo catodico non è soltanto uno specchio.
Il cubo catodico non è un confessionale.
Il cubo catodico non è mai ciò che è.
Il cubo catodico è una casa.
Il cubo catodico è una serie di abitanti in uno.
Il cubo catodico è una macchina interattiva.
Il cubo catodico è l’identità di chi lo osserva.

La televisione non è un oggetto che si osserva passivamente.
Questa mostra ciò che il suo pubblico desidera più o meno coscientemente di vedere.
Il pubblico è responsabile di ciò che viene trasmesso, quanto chi lo trasmette.
La violenza imperversa tingendo di nero i notiziari, in un momento tanto critico, si ha bisogno di avere un riscontro con la parte più malata della società, per sentirsi in pace con sé stessi.
La televisione è sempre più una casa ideale, un luogo segreto dove ognuno riversa dubbi, paure ed emozioni, svuotando il più possibile la realtà di consistenza.
I personaggi televisivi sono caricature di sé stessi, più che di un’umanità reale.
In parte il processo si inverte, e nella realtà si manifestano sempre più personaggi modellati sugli stereotipi televisivi.
Se si desidera, si viene accontentati almeno nell’immaginario collettivo.
Il cubo catodico è una scatola cubica, aperta soltanto su un lato. Dentro, illuminata con delle luci bluastre, una piccola casa supercompressa: un piccolo fornello, una padella, delle scatolette, un apriscatole, dei crackers in un paniere , delle uova, dei piatti di carta.
Un lavandino, ovviamente senz’acqua, alle volte finto, surreale, con uno specchio, bicchiere con spazzolino e dentifricio.
Una tendina con dietro una tazza del cesso, cartaigienica, un portariviste vecchie ed illeggibili, dei libri sacri che sono sagome di cartone.
Una poltrona con lo schienale rivolta verso il lato aperto.
Un letto, che poi è una panca, o delle sedie con sopra un logoro materassino.
Un faretto spostabile ed una serie di tubi dove attaccarlo sparsi un po’ ovunque.
Le pareti, cartone intonacato, fragile, decadente, marcio.
Ci sono dei quadri con strani personaggi in foto d’epoca, tutti portano occhialini scuri con crocette.
Al centro della stanza, rivolta verso la poltrona (quindi rivolta al contrario rispetto al pubblico) una televisione accesa che illumina da sola la stanza, appoggiata su di un frigorifero assieme ad un posacenere, sigarette, accendino ed una pleistescion (una scatola di legno con un controller infilato dentro.
C’è un tramite, tra lo spettatore ed il performer che abiterà il cubo. Un telecomando, una tastiera di cartone il senso dei quali pulsanti, è esplicito, e non mascherato da un numero.
Ad ogni concetto corrisponde un pulsante. Ad ogni pulsante corrisponde un suono. Ad ogni suono, l’azione del performer.
Violenza, sesso, cultura, fumo, cibo, dormire, animale domestico, giardino, politica, musica, ginnastica…
Arriva l’attore, vestito di nero, con gli occhiali crociati.
Si siede sulla poltrona e aspetta.
Qualcuno arriva a premere un pulsante, l’attore accende una sigaretta.
Qualcun altro ne preme un altro, l’attore apre una birra.
Beve. Prepara il cibo, si lava, fa i bisogni fisiologici, dorme vestito nel letto, legge un libricino che ha in tasca, si eccita di fronte ad un ipotetico porno (ma non lo fa di fronte ai bambini, in quel caso scoppia a ridere davanti alla tv), gioca alla pleistescion, suona la fisarmonica giocattolo.

Il gioco consiste nel far premere al pubblico i pulsanti.
Il performer (che sarei io) farà ciò che gli altri gli chiedono, senza sapere bene cosa stanno domandandogli, sovrapponendo gli ordini in modo caotico, fino al collasso dopo venti minuti di performance ripetibili per tre volte nella stessa serata.